Erika Pell4
“Operazione finale”: fine di un popolo sotto gli occhi del mondo.
Mentre il mondo scrolla, scorre, resta in silenzio, a Gaza la storia si ripete con un’accelerazione spaventosa. Secondo diverse fonti, Israele ha mobilitato circa 70.000 soldati nella Striscia di Gaza, dando il via a quella che alcuni chiamano senza vergogna “operazione finale”. Un termine che gela il sangue. Un termine che, nella storia dell’umanità, ha già significato una sola cosa: distruzione programmata.
Le immagini che escono dalla Striscia non sono più guerra: sono l’annientamento sistematico di un popolo. Interi quartieri rasi al suolo. Ospedali senza elettricità. Bambini sepolti sotto le macerie. La Palestina viene divorata giorno dopo giorno, metro dopo metro, in nome di una sicurezza che ormai ha perso ogni contatto con il senso di giustizia.
Ma quale sicurezza può giustificare il genocidio di un popolo senza esercito, senza scampo, senza vie di fuga?
Oggi molti osservatori si spingono a paragonare la sorte dei palestinesi a quella degli indiani d’America: popoli cacciati, confinati, umiliati, poi dimenticati. Una pulizia etnica moderna, fatta sotto i riflettori, con i droni che sorvolano e le telecamere accese — ma nessuno che osi fermare la mano.
E il mondo? Muto. Paralizzato. Vigliacco.
Le capitali si riempiono di frasi vuote, di richiami alla moderazione, di appelli sterili alla pace. Ma sul campo non c’è pace: ci sono carri armati, c’è fame, c’è paura. C’è una popolazione civile che viene trattata come se fosse sacrificabile, come se il suo diritto a esistere fosse soggetto a permesso altrui.
Le parole, oggi, non bastano più. Chi non prende posizione, chi si rifugia nell’equidistanza, è complice. Chi guarda senza agire, è parte del problema. Ogni minuto in più di silenzio è un altro passo verso l’oblio di un popolo.
Oggi non è solo la Palestina a morire. Muore la coscienza collettiva
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